I talk show politici: spettacolo e pochi temi
- Manuel De Maria
- 19 feb 2024
- Tempo di lettura: 4 min
Nella vasta scelta dei programmi televisivi odierni, è difficile non imbattersi nei salotti politici italiani. Dai consolidati "Porta a Porta" e "Pomeriggio 5" ai più recenti "DiMartedì", "Otto e Mezzo" e "Fuori dal Coro", “Che Tempo che fa” e potrei continuare ancora: questi talk show sembrano avere molto in comune. Ma cosa?
Un'arena schierata
L'aspetto più evidente è lo spazio dato alle varie forze politiche e il pubblico di riferimento di ciascuna rete televisiva. Ad esempio, "Porta a Porta", condotto da Bruno Vespa, ha spesso una linea filogovernativa, con una tendenza generale che strizza l’occhio alla destra contemporanea (forse seguendo anche i diktat della TV di Stato). Programmi come quelli di Mediaset tendono anch'essi verso l'area di governo, riflettendo i partiti politici di riferimento che storicamente comunque sono stati molti vicini all’area berlusconiana e conservatrice. Tuttavia, va notato che, dopo la morte di Berlusconi, il figlio Piersilvio ha cercato di introdurre un maggiore pluralismo, ad esempio con “l’acquisto” di Bianca Berlinguer nella rete per aumentare gli ascolti. Crescendo con le cifre del telecomando, ci si sposta gradualmente verso un’area più progressista vicina agli ambienti PD/M5S, con chiaro riferimento alle reti La7 e Nove che, a dirla tutta, sono generalmente molto pluraliste benché visibilmente più schierate.
Lo scacchiere è dunque pronto: mentre i programmi su Rai e Mediaset sembrano schierarsi verso la propaganda conservatrice, il resto tende più verso il progressismo. Tuttavia, vi è un problema comunicativo non indifferente di fronte a questi numeri: i confronti spesso non sono bilanciati, con domande più difficili per gli ospiti "scomodi" (pensiamo ad un rappresentante PD da Porro e, al contrario, un esponente di Fratelli d’Italia da Fazio) e risposte agevolate per i rappresentanti del governo o, comunque, per l’area di riferimento. Pesa, inoltre, che molti personaggi politici si rifiutino di partecipare ai talk: Giorgia Meloni accetta solo Vespa, Renzi rifiuta categoricamente Piazzapulita. Questo crea un'arena televisiva in cui l'imparzialità dell'arbitro-conduttore è messa in dubbio e i telespettatori possono percepire un certo distacco fra ciò che viene raccontato e ciò che la realtà riporta davvero. La criticità maggiore è che molto spesso si riescano a sentire più argomentazioni sullo stesso tema, applicabili tutte nel torto o nella ragione senza mai però arrivare ad un punto di convergenza: è l’era dell’estrema polarizzazione e della pochezza del contenuto.
Un'arena urlante
Microfoni chiusi, audio abbassati e voci sovrapposte: la maggior parte dei talk show politici odierni soffre di una mancanza di chiarezza e di un'eccessiva polarizzazione. Le discussioni diventano spesso battaglie ideologiche in cui le idee sono confuse e l’unico obiettivo l’imposizione del proprio pensiero. I politici, per adattarsi alle regole mediatiche, tendono a presentare pacchetti di argomentazioni prefabbricate piuttosto che analizzare gli argomenti in modo dettagliato, dando l’impressione (o forse è realmente così) di ridurre il dibattito politico a una campagna elettorale permanente. Il danno, in questo caso, è che se durante il periodo elettorale si devono raccogliere i frutti delle proposte che devono essere snocciolate e consegnate ad una platea quanto più ampia e nella forma più diretta e comprensibile possibile con dei tempi di comunicazione sicuramente diversi, nei contesti televisivi ci si potrebbe (dovrebbe) aspettare una elaborazione del contenuto certamente più matura, se non convergente (si parla comunque di un’arena politica e non di un tavolo di trattative) quanto meno chiara e netta: non serve a niente polarizzare il contenuto politico su più reti, con opinione diverse e povere di contenuto. La politica, storicamente, è comunque elaborazione e compromesso, non decadimento verbale e comunicativo.
In questo contesto, i telespettatori si trovano a dover affrontare uno scontro triste che molto spesso è davvero costruito ed amplificato su social e stampa, piuttosto che un confronto costruttivo. Tutto ciò rende la politica più semplice e accessibile, è vero, ma anche meno informativa e complessa di quanto dovrebbe essere ed il principale danno lo subiamo noi elettori, prima ancora che telespettatori: al momento del voto forse ci ricordiamo maggiormente la capacità di convincimento e non il contenuto della proposta. Questi, infatti, sono i risultati.
Esiste una soluzione all’arena?
Ma riusciamo a vedere una via d’uscita da questo modo di fare politica? I talk show sono diventati ormai un appuntamento fisso settimanale che, con i tempi di oggi, significa fagocitare costantemente informazioni e notizie nuove, che presto macinano e sostituiscono quelle vecchie, consegnando alle memorie dichiarazioni e fatti. Generalmente questo avviene maggiormente per le forze di governo che tendono a spostare l’attenzione su problemi che si credono essere risolti o secondari rispetto alle tematiche portate avanti dalle forze di opposizione. Ma abbiamo davvero il tempo di metabolizzare una notizia, un argomento o un pensiero politico prima di passare al prossimo?
Il rullo compressore dei social media non ci permette più di fermarci e questo non riguarda solamente il mondo della politica che è però forse quello che ne soffre maggiormente. Stiamo sempre più dirigendoci verso una forma mentis che non prevede più il “noi” ma l’”io” e “tu”. Per essere chiari: è naturale e sempre lo sarà che ad un pensiero ne venga contrapposto un altro, l’abbiamo visto per decenni e il più grande esempio di dicotomia politica lo si ritrova nel ventennio berlusconiano ma la sensazione che provo nell’epoca storia odierna è quella del nemico e non più dell’avversario. Non si fa più politica per i propri ideali ma per contrastare e smentire quelli altrui. Se l’avversario si esprime, mi offre un grande assist: se sono all’opposizione faccio l’esatto opposto di quanto fa o esprime la posizione del governante (salvo poi rimangiarmi tutto una volta al potere).
Come se ne esce? Il fenomeno televisivo sembra ormai ben strutturato e delineato: si cerca lo scontro e il confronto, non più il dibattito o la dialettica: abbiamo avuto la brutta idea di importare questo format dagli Stati Uniti che però vivono e si formano in una più delineata formazione politica, in un engagement ideologico che è presieduto da lobby e interessi non indifferenti. Abbiamo copiato i confronti, i talk e i dibattiti, non avendo chiara la natura del nostro parlamentarismo. Torniamo indietro. Torniamo a parlare di politica, ponendo in primis domande scomode in un confronto tra politico e giornalista, che metta al centro i temi e le posizioni politiche e non gli argomenti confezionati. Diamo spazio ad una voce per un’intera trasmissione, e così facciamo fra una settimana, con un altro protagonista.
Il pluralismo non è avere un numero spropositato di voci in una trasmissione, ma permettere il dibattito costruttivo dopo aver ascoltato tutti. Ma, forse, i tempi non sono più “maturi”.
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